Martin Mystre

[Recensione] Longitudine zero

Martin Mystre n. 317, novembre 2011

17/11/2011
[Recensione] Longitudine zero

Soggetto e sceneggiatura di Alfredo Castelli Disegni di Giulio Camagni ‘Longitudine zero’ segna l’esordio di Giulio Camagni, un nuovo disegnatore (per questa serie, almeno) che si rivela sin dall’inizio a suo agio nel gestire le complesse e sfaccettate sceneggiature di Alfredo Castelli: il suo stile piuttosto versatile funziona molto bene sia nelle scene movimentate (dall’azione delle battaglie aeree all’orrore Kinghiano che emerge dalle nebbie) sia in quelle più “documentaristiche” (dove si alternano Martin Mystere seduto a un tavolo e scene “iconiche” del passato). Il chiaroscuro evocativo e la composizione dinamica e armoniosa di ogni scena (basta osservarne le inquadrature e gli elementi in gioco, per capirlo) concorrono a creare una narrazione immediata, forte e cinematografica, molto lineare ed elegante nel suo sviluppo. Camagni è anche adeguatamente e abilmente visionario, quando serve: prova ne siano le elaborate forme del “cervello volante”, che a seconda di come le si guarda divengono un ammasso di volti urlanti per poi tornare a essere semplici (?) circonvoluzioni. La padronanza della narrazione per immagini e di tutti i classici del genere è testimoniata dalla forza di illustrazioni che sono da immaginario collettivo: non parlo solo della capacità di riprodurre le angoscianti atmosfere nebbiose di The Mist, ma anche di scene fortemente rappresentative come la vignetta che mostra la flotta di dischi volanti in formazione sopra l’oceano. In una sola inquadratura, ci sono narrazione, regia e suggestioni che valgono un’intera storia (una copertina mancata, insomma). “Discepolo” di Carlo Ambrosini, Camagni sembra essere influenzato anche da autori come Caluri, Toffolo e Mattioli: stessa scuola? In ogni caso, è il benvenuto! E a proposito di storia, la sceneggiatura stessa è un concentrato di idee e di documentazione che la pongono già tra i classici della serie. Come è tipico delle migliori idee di Castelli, la vicenda mescola il classico mystero e gli aspetti della vita di tutti i giorni, che ora però assumono una valenza diversa: ecco quindi che la tendenza a “straparlare” non è più un sintomo di stress o di disturbo o di senilità, ma piuttosto un effetto quantistico del contatto temporaneo tra due universi paralleli! A un livello molto più circoscritto (e anche un po’ ironico), la teoria delle stringhe, risucchiata nella faccenda della doppia teoria del tutto, assume consistenza fisica: il Martin alternativo giunge nella “nostra” realtà avvolto da un bozzolo di filamenti simili a elastici, che si dissolvono dopo essere stati spezzati. In altre parole, la transizione è stata compiuta da una tecnomagia a base di “stringhe”. Molto suggestivo anche il paragone tra il mostro di Frankenstein e il reattore nucleare fuori controllo di Chernobyl: in entrambi i casi, una creatura sfuggita al controllo della scienza umana, non più visibile (scomparsa tra i ghiacci o sepolta nel cemento) ma tutt’altro che neutralizzata o resa innocua. Ultima annotazione: Ziegler ha imparato fin troppo bene la sua lezione di storia; dopo le vicende dell’operazione Paperclip (riccamente utilizzata anche in X-Files), per lui americani e nazisti non sono poi tanto diversi, quando si tratta di scrupoli e di armi finali. Nella stratificazione di riferimenti, oltre al già citato film The Mist (che non è oggetto di un plagio come di solito accade altrove, ma di un dichiarato prequel, visto che si fanno nomi e cognomi) segnaliamo anche Sliding Doors, film a cui sembra alludere una vignetta di pagina 40. Seguono a ruota Dylan Dog (che a differenza di Martin non invecchia) e la continuità interna della serie (la casa di Providence, il Teschio di Cristallo e la Piramide-deposito di scorie radioattive). A proposito di Dylan Dog: proprio di recente i lettori hanno votato a favore di un nuovo team up con Martin Mystere. Coincidenza? “Le idee sono nell’aria”? Di certo una storia simile sarebbe interessante, se si trovasse il modo di spiegare perché Dylan è ancora un trentacinquenne, mentre Martin è parecchio più anziano (non che sia un caso isolato, ma sarebbe una vera sfida dare una motivazione che funga anche da motore dell’incontro e della trama). La rilettura dell’albo, però, fa emergere anche alcuni punti dolenti: a dire il vero, erano già stati brevemente visibili durante la prima lettura, ma erano stati rapidamente accantonati per seguire lo sviluppo della trama, in un susseguirsi di eventi e un accumularsi di dati… i quali alla fine non tornano del tutto. Come Castelli ha raccontato più volte, il suo metodo narrativo consiste spesso nell’iniziare una storia senza sapere esattamente dove andrà a parare: o meglio, lo sa il suo inconscio, che lo soccorre quando non gli riesce di elaborare un finale adeguato per l’intreccio costruito. Questa volta, purtroppo, l’inconscio non ce l’ha fatta per tempo. Restano così domande senza risposta, eventi cruciali mancanti, personaggi che spariscono, tempi che non combaciano. Si può dire che la storia funziona a livello di primo impatto (anche “emotivo”), ma purtroppo non regge a un’analisi più meditata (a dire il vero, non regge già alla prima lettura, perché come già detto i dubbi erano emersi, ma erano stati trascinati via dalla narrazione fluviale). La questione irrisolta più evidente è quella di Ziegler e Peck. Chi sono costoro? Che “peso” hanno veramente nella narrazione? Ziegler sembra aver attivato un meccanismo di sdoppiamento degli universi. Perché l’ha fatto? Come poteva saper fare una cosa del genere? Quando lo ha fatto? Se aveva una tale capacità, perché poi in entrambe le realtà ha fatto una fine tanto patetica? La realtà biforcata, in quanto tale, è un universo completo e a sé stante, ma Java lo respinge, ritenendo che si tratti di una deviazione temporanea. Se così è, perché Peck si comporta in modo tanto diverso? E se è una realtà separata, perché il Martin alternativo deve tornare nella nostra? In che senso questa azione chiude il cerchio? Nella nostra realtà, Peck muore in modo assai banale tra i ghiacci: eppure, nell’altra realtà si rivela essere nientemeno che uno scienziato nazista sopravvissuto fino a oggi e in possesso di ogni genere di segreto. Una contraddizione che sottolinea la separazione dei due universi, e che pone ulteriori domande: come si sono conosciuti lui e Ziegler? È stato un caso? Oppure Peck progettava di tradirlo anche nella nostra realtà? E ancora, qual è esattamente lo scopo di Peck, nell’altro universo? Reimpossessarsi della tecnologia del “doppio tutto”? Per farne cosa? Dobbiamo concluderne che “di là” il male ha vinto? Suggestioni a parte, la doppia teoria del tutto è stata a sua volta dimenticata per strada: non solo non viene minimamente esposta (eccetto l’esca gettata da Ziegler), ma non viene esattamente mostrata in azione. Quando Peck la torna finalmente a nominare, sembra proprio che il nome sia stato introdotto in fretta e furia nei dialoghi per rimediare a una falla della sceneggiatura. E in effetti, sebbene si riveli capace di collegare universi interi, non unifica nulla, disattendendo le promesse fatte. Di certo, i mostri extradimensionali di The Mist e il disco volante capace di varcare le realtà sono una conseguenza dell’applicazione della doppia teoria, ma anche questo dettaglio rimane fumoso e tutte le sue implicazioni non vengono nemmeno menzionate (soldati nazisti ancora vivi? Come mai? E se i nazisti possedevano una simile conoscenza, perché non l’hanno usata? Oppure l’hanno usata in modi impensabili?). L’impressione è che la sceneggiatura non sia stata revisionata a sufficienza per far quadrare la logica della trama. Di conseguenza, nel finale, fatti e personaggi sembrano scivolare via come sabbia tra le dita di una mano, lasciandoci con l’impressione di osservare un edificio costruito a metà. Se a inizio storia Martin cerca di trovare una giornata perduta, perché non gli sovviene di aver straparlato più e più volte riferendosi a sensazioni e concetti e scene che non ricorda di aver vissuto? Decisamente questi misteriosi eventi (che Diana gli ha fatto notare con vigore) erano ciò che stava cercando: una giornata (o settimana) perduta! Purtroppo, il personaggio di George McCardell non ricompare nel finale (e Martin lo nomina frettolosamente, per rimediare), ma possiamo star certi che la conversazione tra lui e Martin sarebbe stata molto diversa da quella iniziale, dopo aver letto come si è effettivamente svolta la storia. Nel calderone degli eventi sconnessi rientrano anche il falso ricordo del disco volante tra i ghiacci: a Martin pare di riconoscerlo, a pagina 69, ma non è possibile perché è la prima volta che lo vede. Una simile frase, infatti, dovrebbe riguardare invece le pagine 33-34 (che si svolgono nel futuro, rispetto a pagina 69; Martin dovrebbe quindi vagamente rendersi conto che il suo alter ego ha effettivamente visto quella foto in un’altra realtà). Continuando con le cose sfuggite alla revisione: la scena di pagina 113 sembra collegarsi a quella di pagina 36, come se Martin e gli altri fossero reduci dalla visione di Relatively Speaking. I tempi dovrebbero essere quelli, ma il collegamento non viene menzionato. Pur essendo scritta splendidamente, quindi, questa storia si arena nel finale, che non riesce a tirare le fila di tutte le idee, i concetti e le trame di cui è intessuta. La doppia teoria del tutto e la suggestiva copertina sembravano promettere non solo azione e avventura, ma anche una narrazione unificante come quella de "L'ultimo mistero". Invece il risultato è una vicenda disorientante, che sembra quasi sgangherata, a causa delle “porte girevoli” con cui elementi e personaggi sono gestiti. Servirebbe una “parte 2”, ma questa osservazione comincia a sembrare un po’ troppo abusata, quasi fosse una scusa d’ufficio. Forse sarebbe servito un supervisore che suggerisse una serie di accorgimenti per far quadrare l’idea di base, che resta comunque intrigante, e gli sviluppi della storia, che è quantomeno affascinante (letteralmente, è una storia che spalanca infiniti universi davanti alla nostra mente). Per esempio, l’atto finale del piano di Peck avrebbe potuto coinvolgere non solo Martin, ma lui stesso. Se entrambi fossero saliti a bordo del disco volante e avessero compiuto il balzo da una realtà all’altra, allora sarebbe stato possibile spiegare il piano di Peck e dargli una logica molto semplice ma funzionante: Peck e Ziegler avevano attivato la deviazione quantistica della realtà per creare una derivazione “temporanea” in cui utilizzare Mystere come “chiave” (sia per giungere al laboratorio, sia per attivare il disco volante e tornare quindi indietro). Il tradimento avrebbe tolto di scena Ziegler, come da effettiva sceneggiatura. Una volta tornati nella nostra realtà, Peck e Martin si sarebbero riuniti ai loro alter ego, fondendosi a livello subatomico e regalando loro sconcertanti ricordi di eventi mai vissuti: Martin avrebbe dovuto tirare le somme a casa propria, mentre Peck avrebbe usato queste conoscenze in Antartide, per procedere da solo fino al laboratorio. E qui avremmo avuto la sorpresa che è anche quella del finale dell’albo: Peck non aveva previsto di poter morire in questa realtà e la sua mente si sarebbe riunita a un cadavere, solo per essere definitivamente sconfitta. Altra cosa da sistemare: il colloquio con George McCardell, che già ora non funziona e che, con questo nuovo finale, avrebbe costretto Martin a rievocare ricordi non suoi, ma già presenti. Accorciando questo colloquio, sarebbe stato possibile dare più spazio a Peck, che attualmente stona anche perché è un personaggio che viola una delle regole più importanti del giallo. Infatti, pur comparendo solo a pagina 111, è il colpevole! Dare un background a questo misterioso scienziato così longevo avrebbe reso più sensata la storia e avrebbe per esempio permesso di coinvolgere Agarthi e Kut Humi: ciò avrebbe dato più sostanza a quel vago accenno di Martin alla propria iniziazione (altro elemento citato in fretta e furia per giustificare i suoi improvvisi “superpoteri”) e, soprattutto, si sarebbe collegato alla familiarità che Kut Humi ha con i suoi ex colleghi nazisti. Per impedire che Agarthi divenisse la chiave risolutiva della vicenda, si sarebbe potuto aggiungere il classico tema della scelta personale di Martin Mystere o della risoluzione “scritta nel libro del destino”. Kut Humi avrebbe potuto decidere di non dover agire, perché un suo intervento non avrebbe risolto le cose, ma avrebbe innescato una eco multiversale che avrebbe dato origine a un’infinità di derivazioni, invece che ricondurre la singola deviazione attuale alla nostra. Per evitare la solita gag di Kut Humi che spiega al discepolo che non bisogna muovere un dito, si sarebbe potuta coinvolgere anche Altrove: Kut Humi avrebbe provveduto a “bloccare” ogni intervento di Altrove, magari entrando in scena per spiegare a Tower ed Aldous quanto ipotizzato sinora (e cioè che per contratto Martin deve essere sempre il fulcro di ogni evento cruciale della realtà). Qui per votare l'albo